domenica, settembre 4
- Gina Pane, la poetica del sangue
Silenzio e tensione. Una donna biancovestita dallo sguardo intensissimo ma quasi assente domina la scena. Il silenzio è pesante. Attorno la gente la guarda quasi senza respirare. E’ una notte del 1973, il luogo è la galleria Diaframma di Milano. La donna biancovestita si chiama Gina Pane, il nome non inganni, francesissima, nata a Biarritz nel 1939. Ha solo 34 anni ma è già una figura epica dell’arte estrema, della body art e di un sacco di altre nuove realtà che stanno emergendo. Sta dando inizio ad una performance mai messa in scena. Il pubblico sa che potrebbe succedere di tutto. Già due anni prima con “Escalade” il Pane aveva scioccato il pubblico facendosi una serie di piccoli tagli con una lametta stando in scena. Ora in scena c’entra con un grande mazzo di rose bianche. Lentamente comincia a staccare le grosse spine che trova lungo i gambi delle rose. Con lentezza esasperante si le ficca con decisa precisione nel braccio sinistro, in fila, una a 5 centimetri dall’altra, dal polso alla piega dell’avambraccio. Seduta a terra, gambe incrociate. Il sangue che ancora non esce dai buchi sul braccio. Il braccio steso alla vista del pubblico. Poi appare una lametta. Un taglio a croce sul palmo della mano, poi un altro tagli poco più su, pericolosamente vicino alle vene del polso. Il pubblico ha il fiato sospeso, l’artista sembra “tremendamente” calma.
Filmati della performance? Non ne esistono. Solo foto e testimonianze.
Nata a Biarritz nel 1939, morta a Parigi nel 1990 si forma come studente di belle arti ma alla fine degli anni ’60 sterza sul territorio nuovo e appassionante della body art, e da li sarà un escalation di idee sconvolgenti.
Sono quattro le performance che nel decennio degli anni ’70 la vedono protagonista. Le già citate “Esalade” e “Azione sentimentale” e “Death control” e “Laure”. Dal 1980 non mette più il suo corpo al centro della sua arte.
E’ il sangue l’elemento fondante di queste quattro performance, un tabù, una paura ancestrale.
Cosi definiva quel periodo poco prima di morire:
“I miei lavori erano basati su un certo tipo di pericolo. Arrivai spesso ai limiti estremi, ma sempre davanti ad un pubblico. Mostravo il pericolo,i miei limiti, ma non davo risposte. Il risultato non era vero e proprio pericolo, ma solo la struttura che avevo creato. Questa struttura dava all'osservatore un certo tipo di shock. Non si sentiva più sicuro. Era sbilanciato e questo gli creava un certo vuoto dentro. E doveva rimanere in quel vuoto. Non gli davo nulla”.
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ti consiglio di andare a vedere i quadri dell'artista pugliese Jara Marzulli.
RispondiEliminaCiao,
Chiara C.
Lo farò senz'altro, grazie Chiara
RispondiEliminaciao Elisabetta