domenica, settembre 4

Letteratura

                                                



Nel nosocomio le malattie sono: consumismo cronico, dissipazione di sé, sofisticata futilità, feticismo corporale, idealizzazione del fare incessante e temporaneo, intransigente adesione al desiderio continuo, monomania del vedere. Le terapie nel nosocomio sono: la ripetizione dei medesimi sintomi all’interno del medesimo campo, la ripetizione delle paure del fuori che ci tengono dentro, così dentro nel nostro specialmente interiorissimo io il medesimo adorando. Talmente immersi che ci inonda l’illusione: non si invecchia, né si muore.
 Una “serie ospedaliera” è Nel nosocomio: un libro che evoca l’andirivieni irrisolto tra malattia individuale e mondo malato, e rappresenta la loro grottesca fusione in un dettato slabbrato, casual, suadente e irretito dai suggerimenti (per gli acquisti) “del nostro direttore”. Non si tratta più de “lo dittatore Amore” che Lo Russo ci presentava qualche anno fa nel libro dallo stesso titolo, ma di un ibrido tra psicologo da talk-show domenicale, capo militare e super-mega-direttore galattico ancora più estenuante ed estenuato, per cui “fiorello” e “freud” sono allo stesso modo apersonali, astorici, ridotti a gadget in plastica, senza neanche le auto-giustificazioni auliche dei “santi padri”. In una divagazione crudele sull’ontologia della superficie, il senso e il non-senso, le antiche beghe sull’essere e il divenire sono tutte risolte nell’esposizione dei corpi in fila. Il balbettio degli a-capo idiosincratici o i formulari del buonismo nazional-popolare gonfiati in modo abnorme ne segnalano lo sfinimento: “Che buono che è il brodo di dado con le stelline di se-/ ra” (dove “se-” è anche il sé, lasciato solo, e “ra” forma l’unico verso finale, parodia dell’illuminazione ermetica e culmine del disfacimentodel linguaggio, anche di quello poetico).
 Sostenuto dai tic lessicali degli slogan reiterati ad libitum, dai refusi e dai frammenti di un luogo im-pensato, caldo del pathos effimero del parlato provincial-televisivo, caldo di una pietas che continua ad innescarsi comunque, Nel nosocomio va ragionando da lontano con altri studi poetici sulle patologie, individuali e/o sociali, del contemporaneo italico (penso a Shelter di Marco Giovenale, per esempio), o meglio, sullo spazio loro appositamente adibito. Un campo, l’ho chiamato qui sopra, chiuso a forza, dove l’esercizio della cittadinanza è sostituito dalla compulsione all’accumulo, e i bisogni vitali, fisici e morali, quelli che Simone Weil chiamava “i doveri eterni verso ogni essere umano”, sono rimpiazzati dai regolamenti, dai regolatori, dal reclutamento in un sistema che svuota i diritti nell’ossessione. 
Ma non sa impedire il com-patire per i goffi, confusi, fragilissimi degenti.



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