lunedì, gennaio 2

Giovanni Raboni.... dall'Autoantologia




Nel decomporsi chissà

Nel decomporsi chissà
che rumore fa il cervello
e che scintille se già
così assordante è il rovello

d’essere, ecco, la metà
dell’annegato, il fratello
siamese di chi non ha
più volto nel mulinello

insieme a precipizio vivi
travolti da un’atassia
divina e a un divino niente

centuplicata la mente
flottando morti nella scia
fulgida dei sedativi.



O cari infinitamente, spariti



O cari infinitamente, spariti
dal tempo, non dai sogni, precursori
nostri nelle tenebre, voi se fuori
del buio c’è ancora buio o a più miti

consigli lo riducono I bagliori
senza gloria, gli stenti, intirizziti
aculei d’un’alba (e, ascoltando, arditi
bisbigli) voi soli potreste, a onore

d’un altro vero, dirci, amate teste,
torsi venerati, e non dite mai,
mai! perché sia intera la libertà
del nostro arbitrio, perché non celeste

ma cieca e folle e sanguinosa sia
intanto, nell’orto, qui, l’agonia.



Cerco qualche volta di immaginare

Cerco qualche volta di immaginare
la felicità, mia e dei morti, e mi sembra
che sia la vita. Forse perché chiare
nella luce che già un po’ s’insettembra

sono adesso le cose e a meno amare
vertigini trascina e tanta assembra
più pazienza, più requie il declinare
del tempo è come se da queste membra

arse e dilaniate l’immensa salma
del mondo risorgesse in una calma
radiosa e stesse al cuore assaporare

l’infinito dolcissimo ritardo
del bene, e sentire l’Olona e l’Ardo
per come si chiamano risuonare.

Ogni terzo pensiero, 1993



Niente sarà mai vero come è

Niente sarà mai vero come è
vero questo venticinque dicembre
millenovecentonovantatré
con il suo tranquillo traffico d’ombre

pe corsie e sale e camerate ingombre
di vuoto e il fiume dei ricordi che
rompe gli argini in silenzio. E’ in novembre,
lo so, vuoi che non lo sappia? per te

che si semina dolore, il più forte,
il più contro la vita – ma se viene
solo ora al suo compimento di morte

e di lì a un’altra nascita conviene
far festa qui, bruciare qui le scorte
di incenso e febbre al turno delle pene.



Stare coi morti, preferire I morti

Stare coi morti, preferire I morti
ai vivi, che indecenza! Acqua passata.
Vedo che adesso più nessuno fiata
per spiegarci gli osceni rischi e torti

dell’assenza, adesso che è sprofondata
la storia… E così tocca a noi, ci importi
tanto o quel tanto, siano fioco o forti
i mesti richiami dell’ostinata

coscienza, alzare questa poca voce
contro il silenzio infinitesimale
a contestare l’infinito, atroce

scempio dell’esistente… (Al capitale
forse è questo che può restare in gola,
l’osso senza carne della parola.)



Mi sono distratto – oh, per poco, appena
Mi sono distratto – oh, per poco, appena
quaranta, cinquant’anni – e mi ritrovo
di colpo, gli occhi abbarbagliati, in piena
vecchiaia, mia e del mondo. Niente è nuovo,

ora che le vivo, più delle cose
che ho vissuto aspettandole, aspettando
la vita, più delle, ma sì! famose
rose che ho colto come in trance, macchiandomi

spesso e volentieri, di sangue… Eppure
c’ero anch’io quella volta, era il mio cuore,
erano I miei nervi, le mie giunture
a tremare di gioia e di terrore

per la tua venuta, sono sicuro
d’esserci stato – o era già il futuro?



Svegliami, ti prego, succede ancora

Svegliami, ti prego, succede ancora
d’implorare in un sogno a questa tenera
età, aiutami, fa’ che non sia vera
l’oscena materia del buio. Sfiora

allora davvero una mano il mio
corpo assiderato e di colpo so
d’averti chiamata e che non saprò
più niente.

Quare tristis, 1998

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